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          Catalogo mostra Galleria TK, Trieste

          1990

 

          Mostra Galleria TK, Trieste

 

 

 

All'origine del discorso informale di Augusto Piccioni c'è un aneddoto che forse vale la pena riportare. Proprio al culmine di un'esperienza figurativa di sicuro esito, la sua pittura aveva accusato sintomi di crisi e certamente di una svolta in atto. Quale fosse questa svolta, non era però in grado di prevedere. Anzi, lo esasperava il fatto che questo suo "altro da sé". come un interlocutore reticente, gli si negasse a livello di coscienza. Allora Piccioni ha preso l’iniziativa - intenzionato a squarciare il velo di Maya - e ha dipinto un quadro in stato di totale straniamento psichico, di azzeramento emotivo, per vedere "dove quello che stava facendo l'avrebbe portato" e decifrare così l'oscuro messaggio.

Se il rimando all'automatismo surrealista può scattare facile, direi essersi trattato in sostanza di tecnica psicoanalitica o di pratica magica (non a caso il primario antropologico resta uno dei cardini dell'edificio freudiano). Allo stesso tempo, con quel quadro "non suo", Piccioni ha inteso celebrare il sacrificio delle vecchie certezze estetiche e la rinascita a nuove e più intriganti.

Ho voluto riportare l'episodio, che si situa nel territorio comportamentale dell'artista, perché mi sembra utile a definire, a contrario, il rapporto che lega l'artista stesso alla sua opera, che è quasi sempre altamente possessivo, quando non perverso e incestuoso. Troppo spesso ci si dimentica che l'opera, ancor prima di essere compiuta, tradisce il suo autore, lo abbandona, se ne va per la sua strada a conquistare il mondo.

E direi che quanto più ammaga dell'attuale pittura di Piccioni, sta proprio in quell'aver rinunciato ad una simbiosi coatta, nell'aver rotto gli argini del quadro e riscoperto la grazia sorgiva del dipingere, una grazia panica, liberante e tutta affidata alla sfera sensoriale di chi guarda.

Piccioni oggi sa che in arte bisogna allentare la guardia, affidarsi cioè a quel tanto di psichismo latente che la incalza, se ci si vuole riappropriare del suo senso, che spesso è antagonistico alla volontà e alle intenzioni di chi le sta dietro.

Fin qui il background per così dire autobiografico della pittura di Piccioni, quello che, pur fondamentale, appartiene alla cronaca dell'artista. Per passare invece alla sua collocazione critica e storica, mi sembra che la rinata attenzione al non figurativo da parte delle nuove leve europee - specie dell'area germanica - lo coinvolga in pieno, soprattutto per quel comune privilegiare in termini "d'espressione" la esagitata virulenza del gesto e la deflagrante eccitazione timbrica.

L'informale tenta dunque la carta neo-espressionistica, riscopre una insospettata verginità in parallelo con altre tendenze che hanno scelto la condizione di orfanità assoluta, di nuclei nati appunto per partenogenesi.

Inseguendo spericolatamente il flusso libero della materia e del colore, Piccioni ha deciso di conquistare similmente una modernità extratemporale, un suo spazio nel creativo dove la storia (Wols, De Kooning, Mathieu, ma anche Moreni, Vedova e Afro) può essere esorcizzata e sconfitta per costanza di rischio.

aufragi, sono i trasparenti titoli della sua ultima produzione. Il riferimento semantico alla previsione apocalittica di un assetto - anche quello delle avanguardie - che rovina trascinando con sé le ideologie da cui ha preso vita, viene fuori inevitabile. II postmoderno ha generato la hybris, la passione e la follia, forse una nuova barbarie. Come nel rogo finale di un ennesimo romanticismo, il cupio dissolvi dell'artista si fa messaggio e testamento ad un tempo.

Piccioni è dunque consapevole che la principale valenza del suo linguaggio - come del resto quello dell'ars autre - consiste nella riattribuzione al soggetto, all`"io attivo", di un ruolo demiurgico, se non più del mondo, dell'esistente. L'atto creativo diventa volontà di potenza, voluttà. Il gesto marchia il "qui ed ora" di un'immagine che non riesce altrimenti a manifestarsi. La sola natura di cui l'artista abbia coscienza, coincide con una sorta di impotenza descrittiva, di disperazione e rabbia che lascia dietro di sé solo la memoria, la risonanza emozionale del momento d'impatto tra l'io attivo e il cosmo sciolti ormai dall'antica dicotomia umanistica.

Questi "mari" e "paesaggi" entro cui l'artista si immerge e si perde, sono in definitiva gli incolpevoli frutti di quello iato e di quella lacerazione: l'estrema possibile rappresentazione di un ordine che può durare solo il tempo di un pensiero.

Giuliano Serafini

Firenze, dicembre '83

 

 

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Presentazione in catalogo per la mostra presso la Galleria Asinelli di Bologna (febbraio - marzo '84).

 

 

 

 

Paesaggi

 

Augusto Piccioni sta transitando dalla pittura-pittura verso un territorio più complesso e avventuroso, di certo sensibile a predicati di tipo post-concettuale. Il luogo della convenzione estetica, quello del piano superficiale compreso entro il perimetro del supporto, sembra non servirgli più. Altre prospettive, altre complicità lo tentano.

Già nel suo penultimo lavoro, lo spazio esterno al quadro veniva assunto come elemento plastico-formale, nel senso che il profilo sagomato del supporto su cui veniva effettuato l'intervento pittorico, disegnava un'immagine in negativo che continuava sul muro, suggerendo un'estensione dell'opera.

Erano i primi “paesaggi con alberi”, dove l'albero finiva per emergere, come nei test psicologici, per arbitrio dei meccanismi percettivi. Chiaramente con questa sottrazione (o addizione?) Piccioni intendeva “profanare”, oltre alle modalità della pittura, quello che è stato uno dei suoi generi più frequentati e fortunati. Attraverso l'utilizzo della parete nuda a fattore visivo primario, il paesaggio veniva destituito dal suo ruolo di categoria estetica a sé, banalizzato nella sua funzione storica, sottratto insomma per ambiguità alla verifica dello sguardo. Senza tener conto - e non so se Piccioni se ne è pienamente accorto - che un ulteriore avanzamento dell'immagine “vuota” all'interno del supporto avrebbe prodotto un corrispondente annientamento dell'immagine dipinta.

L'artista deve comunque aver intuito il rischio che questa fascinazione del “levare” comportava, e ha cercato di compensare la perdita. I mezzi però non potevano essere più quelli pittorici, perché sarebbe stato un tornare indietro, un tradire quel progetto di impossessamento graduale dello spazio fisico fuori del quadro.

Analizzando i lavori in mostra, ci rendiamo conto che il passaggio è stato logico, conseguente. Piccioni si trova ormai a organizzare un linguaggio pluridirezionato, polimorfo, tutto fruibile attraverso pseudo-trompe l’oeil. Si guardi come viene risolta l'ombra dell'albero in questi “paesaggi”. L'immagine in negativo richiedeva, per riequilibrare la scena, il suo contrario, il pieno, il materico; e la silhouette di lamina metallica che si protende in avanti come una protesi invade il pavimento, è la soluzione pertinentissima, e insieme paradossale, di un gioco visivo sempre più disposto a farsi dimensione totale e praticabile.

 

Giuliano Serafini

(1990)

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Presentazione in catalogo per la mostra presso la Galleria "TK" di Trieste (maggio '90).

 

 

 

 

 
 

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AUGUSTO   PICCIONI